Giugno 2004 per quasi tutti gli italiani espatriati nel mondo rosso aveva un significato particolare, almeno da qualche mese. Per quanti, come me, erano stati per tempo informati, per tempo anche sollecitati dai funzionari dell'Ambasciata e dei vari Consolati d'Italia a cogliere l'occasione di un incontro solenne, introdurre i propri amici cinesi "importanti", i capi d'azienda, nonché le proprie eminenti ed emaciate persone al nostro beneamato Presidente, giugno 2004 veniva associato con la visita ufficiale di Carlo Azeglio Ciampi nella RPC. Ci si è messi pazientemente a compilare moduli per partecipare al seminario sugli "Accordi Interregionali in Asia" e al successivo seratone di gala all'Okura Garden Hotel (che ben più interessava la maggioranza di noi), si sono segnalati gli ospiti locali, corredando il tovaglia-form con numero passaporto e nome traslitterato, e si pensava a quale cravatta abbinare al gessato per il giorno della stretta di mano. Ma come avrete letto, di certo minimamente stupefatti e occhiando di sfuggita il trafiletto, la visita del 6 giugno in Cina del nostro Presidente della Repubblica accompagnato con sfarzo da un molto consistente seguito di ministri, vice-ministri e personalità italiche, è stata annullata in seguito ad un incidente che ha procurato la frattura della clavicola presidenziale. Quelli dell'Okura Garden e della Camera di Commercio hanno ben confermato tutti gli impegni previsti, lezioni, conferenze, cene e banchetti (ovviamente tutti a pagamento), ma la diserzione politica e l'insoddisfazione generale hanno dominato.
Come è stato accuratamente spiegato ad un altro presidente, Hu Jintao, e anche al primo ministro della RPC Wen Jiabao, che invece loro in Italia ci sono arrivati, "...uno sfortunato incidente ha provocato la rottura della clavicola destra e mi impone un periodo di convalescenza più lungo del previsto, obbligandomi a rinunciare, per la seconda volta, a questa importante missione". Sorriso, sorrisi.
C'è da dire però che in Italia v'è anche chi ama venire sovente fin quaggiù: il vice ministro alle Attività Produttive Urso, ad esempio, sembra aver maturato una bollente carta frequent flyer per la tratta Roma-Pechino, insieme ai suoi dell'Associazione Italia-Cina e delle varie CCC. Strano che il ministro alle Attività Produttive Marzano sia anch'egli un affezionato, e soprattutto che accompagni senza Urso il team Ferrari a Shanghai: da indiscrezioni sembra (in maniera del tutto ufficiosa, non ne ho trovato conferma su nessuna testata di stampa) che sia stato il tanto paventato progetto "Marco Polo" sul Made in Italy in Cina ideato dal vice ministro, stra-pubblicizzato anche con un libello giallo a grande diffusione, ad indispettire il Ministro Marzano che, quando si è accorto (!!!) che esso era in realtà solo la lista delle attività già programmate dalla Camera di Commercio Italiana in Cina senza nessun apporto costruttivo quindi da parte di Urso ma con ampio dispendio di fondi ministeriali, ha deciso di lasciarlo a casa. I nostri politici, c'è da dirlo, non danno un'immagine sana della nostra amata patria.
E ci si mette pure il Milan a farsi vincere dalla squadretta di Shanghai.
Meno male che almeno abbiamo le imprese.
La presenza delle imprese italiane in Cina, secondo l'ultimo censimento del dell'Ambasciata Italiana a Pechino, in collaborazione con ICE e Camera di Commercio, ammonta a 617 imprese. Esse sono suddivise in 237 Italian founded enterprises, società italiane a capitale misto o interamente controllato, dislocate su tutto il territorio, con una prevalenza nelle Provincie costiere, e 380 uffici di Rappresentanza concentrati prevalentemente nelle due Municipalità di Pechino e Shangai. Nei rapporti economici bilaterali tra Italia-Cina, la bilancia commerciale è negativa per il nostro Paese. Secondo i dati ISTAT, l'interscambio di 10,02 mld avvenuto nel 2003, manifesta un disavanzo di 4,59 mld USD per l'Italia. Tra il 2001 e il 2002 l'export Italiano in Cina conferma una crescita sostenuta passando da 3,8 mld USD a 4,3 mld USD. Purtroppo la quota di mercato Italiano si restringe in termini relativi, dall'1,56% all'1,46%, retrocedendo di parecchie posizioni nella classifica dei paesi stranieri in Cina. Questo, per riassumere, significa che quasi i due terzi delle imprese italiane in Cina sono "Rep. Office", che i cinesi vendono in Italia quasi cinque miliardi di dollaroni in più di quanto noi vendiamo in Cina e che, se non ci sbrighiamo, il mercato più ambito del mondo sarà tutto in mano di americani, inglesi, francesi e giapponesi.
L'Italia guarda alla Cina e resta ferma, quando si muove invece lo fa senza capire, alla cieca. Ho visto troppe aziende affidate a incompetenti con bastoncini e biciclette al posto della Cina vera in testa. Vedo italiani impauriti e senza capacità di reagire, non solo gli imprenditori. Una signora sui sessanta, casalinga, mi gridò in faccia una volta, in stretto dialetto vicentino: "lasciali stare a quei cinesi lì, che ci tolgono il lavoro!".
La Cina lavora, cresce, sta inglobando il resto del mondo con la pazienza e la diligenza (anche con scorrettezza, perché no). E quando ci si presenta una opportunità di capirla, per pareggiare i conti, per cercare di spizzicarne una fetta anche se piccola, per poter in seguito vendere i nostri prodotti, i migliori del mondo in molti settori, a questi sempre più ricchi continentali d'oriente, finiamo per mancare l'occasione.