Il teatro di D'Annunzio merita un discorso a parte, e non breve.
Anche nel palcoscenico riuscì a far epoca, lanciando molti sassi nello stagno di una drammaturgia italiana ferma all'imitazione di Goldoni o dedita alla traduzione o al rifacimento di opere francesi per un pubblico borghese che andava a teatro solo per farsi vedere, in quanto il vero spettacolo popolare a quei tempi era il teatro lirico.
Come nel romanzo o nella poesia, l'antipatia per l'Immaginifico ha pesato sulla critica ed in questo caso anche sulla quasi totale mancanza di messinscene moderne. Quando ci sono state, inoltre, si è trattato talvolta di operazioni di dubbio gusto, come "la figlia di Iorio" rivista da Giancarlo Cobelli o quella di Roberto De Simone. Per non parlare della riduzione teatrale del "Giovanni Episcopo", montata da Aldo Trionfo in un pastiche con il "Martirio di San Sebastiano" e brani di lettere di Ariel ad un'amante. Eppure le rare rappresentazioni fedeli, dovute soprattutto a Giorgio Albertazzi, hanno riscontrato notevoli consensi di pubblico. Nella prefazione ad una traduzione di qualche anno fa di "Divine parole" di Ramón del Valle-Inclán, il curatore affermava tranquillamente che la scena degli infoiati del testo spagnolo era superiore a quella de "La figlia di Iorio". Niente di più errato e gratuitamente tendenzioso; basta confrontarle.
D'Annunzio arrivò al teatro tardi rispetto alla sua precocità di poeta, dopo la lettura della "Nascita della tragedia" di Nietzsche, il viaggio in Grecia e contemporaneamente alla sua relazione con la Duse. Naturalmente non poteva adattarsi alla "quarta parete" del teatro borghese, ma covò l'idea di ricreare la tragedia eschilea, con canti, danze e musiche. Dopo un paio di prove non fortunate, nonostante l'interpretazione della Duse, perché troppo letterarie, "Sogno d'un mattino di primavera" e "Sogno d'un tramonto d'autunno", venne un'opera come "La città morta", sintesi moderna di suggestioni sofoclee e torbida storia d'incesto sullo sfondo della città degli Atridi. Qui l'evocazione del mondo classico non è freddo esercizio letterario, ma completa aderenza. Pur con alcuni limiti drammaturgici, l'opera rappresentò un vero schiaffo al mondo teatrale dell'epoca.
Le tragedie posteriori, sia pur interessanti, furono indubbiamente inferiori a quella che sarà il capolavoro del teatro dannunziano, "la figlia di Iorio". Ambientata in un Abruzzo fuori dal tempo, senza nulla di regionalistico, raggiunge vertici mai raggiunti nel teatro tragico italiano grazie all'invenzione di un linguaggio consono "al tempo passato", una perfetta consonanza tra materia ed espressione. "La fiaccola sotto il moggio", sia pur inferiore, resta comunque un capolavoro del teatro di poesia. Interessante, per le suggestioni strindberghiane ed anticipatrici del Pirandello di "Diana e la Tuda", di certi dialoghi di Ugo Betti e delle fantasie di Rosso di San Secondo, un'opera che non ebbe fortuna nemmeno ai suoi tempi, "Il ferro", scritta inizialmente in francese con il titolo "Le chévrefeuille".
Il dannunzianesimo deteriore di troppi cattivi imitatori coevi ha indubbiamente contribuito a far allontanare potenziali fruitori dalle opere teatrali di Gabriele D'Annunzio, e non solo quelle qui ricordate, così come una miriade di scrittori dannunziani del primo Novecento ha prodotto romanzi decisamente illeggibili.
Gran parte del corpus lirico, drammatico e narrativo di Gabriele D'Annunzio non è più in sintonia con i gusti del lettore del terzo Millennio, ma in una produzione vastissima che comprende anche libri di memorie e cose viste ci sono ancora pagine e pagine in gradi di suscitare grandi emozioni.
articolo pubblicato il: 26/04/2023 ultima modifica: 09/05/2023