Storia di una capinera, in scena al Menotti dal 13 al 18 febbraio, è la passionale narrazione della novizia Maria con il riadattamento di Micaela Miano, per la messinscena di Guglielmo Ferro, che ne ricodifica la struttura drammaturgica del romanzo per fare emergere il rigido impianto culturale e umano delle famiglie dell’epoca.
La vicenda si concentra su un unico nucleo narrativo: la storia della povera Maria, raccontata attraverso le lettere che scrive ad una compagna di convento (Marianna). Il cambiamento interiore di Maria nasce da una sua provvisoria liberazione, dal contatto con la natura, dal suo ritrovarsi con la famiglia nelle terre di Monte Ilice mentre a Catania infuria il contagio del colera. “Il mio pensiero non è imprigionato sotto le oscure volte del coro, ma si stende per le ombre maestose di questi boschi, per tutta l’immensità di questo cielo e di quest’orizzonte…”
La storia si snoda tutta sul filo di un progressivo itinerario spirituale: quella esperienza fa sorgere in lei il senso d’una vita più libera e aperta, e l’avvia a concepire una crescente avversione per l’ambiente conventuale dove ha trascorso da educanda gli anni dell’adolescenza. Di qui, scopre l’amore. Il giovane Nino è l’idolo un po’ sfocato che accende nella protagonista la fiamma di una passione inestinguibile. Ma il rapporto è troncato sul nascere dall’intervento dei familiari: Nino sposerà la sorella di Maria (Giuditta), acconciandosi a un matrimonio giudizioso e senza fantasticherie. Maria sarà costretta a rientrare in convento dove si spegnerà dopo una lunga e penosa agonia.
Timida e fragile come una capinera, e rinchiusa come l’uccellino in gabbia, fra le grigie mura di un convento: così è Maria, nel celebre romanzo epistolare di Giovanni Verga, che regala un affresco della Sicilia borghese ottocentesca, ma anche un toccante esempio di scrittura introspettiva, di critica sociale, di partecipazione per il destino dei più deboli... “Storia di una capinera” - di cui rimane memorabile la versione cinematografica di Franco Zeffirelli - arriva a teatro con il nuovo allestimento a cura del regista Guglielmo Ferro e, fra gli interpreti, Enrico Guarneri e Nadia De Luca.
Note di regia:
Ecco perché l’ho intitolata Storia di una Capinera, così Giovanni Verga introduce il suo romanzo epistolare, una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto.
Perché, se Maria è vittima, non lo è dell’amore peccaminoso per Nino che fa vacillare la sua vocazione, ma lo è del vero peccatore ‘verghiano’ che è il padre Giuseppe Vizzini.
Giuseppe che, rimasto vedovo, manda in convento a soli sette anni la primogenita, condannandola all’infelicità. Un uomo che per amore, paura e rispetto delle convenzioni causa a Maria la morte del corpo e dello spirito. È sul drammatico rapporto padre figlia, sui loro dubbi e tormenti che si mette in scena la storia della Capinera. La stanza del convento è il centro della scena, Maria non esce da quella prigione, e il padre Giuseppe ne è il carceriere. Entrambi dolorosamente vittime e carnefici. Ogni evento che deflagra nella mente di Maria, ogni personaggio altro che scardina il viaggio del noviziato di Maria, sono gli elementi drammaturgici per sviscerare il dramma interiore di un padre che finisce per uccidere la figlia. È il racconto di legami infelici, di dinamiche familiari per noi oggi impossibili da immaginare ma che Verga racconta con l’inesorabilità di una condanna.
Non c’è redenzione per Maria, non c’è redenzione per il padre Giuseppe, e nemmeno per noi. Perché la redenzione non appartiene alla Sicilia di Giovanni Verga.
Guglielmo Ferro
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articolo pubblicato il: 10/02/2024