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speciale perché non possiamo dirci italiani
seconda parte
di Piero Pastoretto

Riprendendo il filo del discorso che avevamo iniziato sul 150° anniversario dell'Unificazione che, come ogni ricorrenza nazionale, richiederebbe un'autentica festa e una massiccia partecipazione emotiva popolare, quale cultura nazionale esce dalle nostre scuole? Chiedete ad un cittadino di media cultura (e per media cultura intendo quelli che vanno dalla licenza media alla licenza di secondaria superiore), se conosce qualcosa dei Savoia. Di cosa vi parlerà? Di Emanuele Filiberto o, i più competenti, di quel "traditore" di Vittorio Emanuele III e delle leggi razziste da lui firmate. Che poi il medesimo personaggio fosse lo stesso re che ha vinto la prima guerra mondiale, e che sia esistito anche un Vittorio Emanuele II che è passato alla storia come padre della patria, beh, questo è ininfluente e poco importante. Che cosa rimane del Risorgimento nella cultura scolastica normale? L'affarismo e gli inganni del Cavour, l'inettitudine e la stupidità di Vittorio Emanuele II, il fatto di Bronte, il brigantaggio meridionale, la reazionaria Chiesa di Roma, le proditorie e dinastiche guerre d'Indipendenza, l'ingiustizia dell'unificazione che fu in realtà una conquista ed una sottomisione al Piemonte, le vittorie ottenute non per merito italiano, ma solo per l'alleanza francese e prussiana. Questa è l'immagine trasmessa, dalla scuola, e tanto più dall'università, del nostro Risorgimento: solo ombre, soltanto intrighi, solo poveri martiri ignoranti mandati a morire per l'imperialismo e l'autoritarismo dei Savoia. Ce n'è da essere orgogliosi? C'è allora qualcosa da festeggiare nell'anniversario dell'Unificazione? Naturalmente no: c'è al contrario da vergognarsene e da battersi il petto recitando il mea culpa. E infatti, quale studente si sente italiano, se non prima e dopo le partite internazionali di calcio o le olimpiadi?

Ma in fin dei conti, guardiamo anche la nostra generazione, che immagino sia dai quaranta anni in su: Quante volte avete pronunciato la parola «patria» nella vostra vita? Una, due volte? Non vi sentite intimamente a disagio a udirla in qualche discorso ufficiale? E le domande a questo punto sono: accade così anche all'estero? E ancora, siamo altrettanto smaliziati, scettici e ironici nei confronti dei risorgimenti e delle battaglie per la libertà e le unificazioni delle nazioni straniere, siano quella vietnamita, afghana, angolana o sudafricana? Ed ancora una riflessione: la generale iconoclastia anti risorgimentale si è volta ormai anche verso l'ultimo, splendido esempio del nostro Risorgimento, la resistenza e la guerra di liberazione. Vi siete mai chiesti perché i giovani della sinistra italiana sfoggiano magliette con l'effigie di Che Guevara? Casa c'entra «Cuba libre» con le lotte dei nostri partigiani e antifascisti per la libertà d'Italia?

Perché non vediamo in giro magliette con l'immagine di Matteotti, Gramsci o di una medaglia d'oro della resistenza come Pertini, che ricordi qualche cosa di più vicino all'Italia libera dalla dittatura e dall'occupazione? Soltanto perché il Che era più belloccio dei nostri martiri della Resistenza e un rivoluzionario un po' più romantico di quelli nostrani? Non sarà forse perché l'unico loro difetto sia quello di essere italiani e l'Italia non deve avere eroi? «Beati quei popoli che non hanno bisogno di eroi», diceva Bertolt Brecht. Ebbene noi italiani siamo beati, anzi, il popolo più beato del mondo: non abbiamo nesun eroe nazionale e, se ce ne serve proprio qualcuno, lo andiamo a prendere in prestito dagli stranieri.

Certamente, ha contribuito alla demolizione di quel che resta di una cultura nazionale, la riforma dei programmi di storia al biennio delle superiori, che ha fortemente ridotto lo studio della storia romana inserendo nei programmi ministeriali, nello stesso anno prima dedicato solo alla storia romana, anche quella medievale fino all'Impero carolingio, sicché poi gli studenti dei licei che devono tradurre dal latino non sanno affatto contestualizzare il brano e cadono nei più incredibili strafalcioni. Siamo al corrente, noi della nostra generazione di adulti, che la storia del Risorgimento all'ultimo anno delle superiori è la più negletta del programma e viene curata dai docenti molto meno della rivoluzione francese o russa? Noi per primi, conosciamo almeno una strofa dell'inno di Mameli? Non lo consideriamo retorico, demodé, patriottardo, estraneo, persino un po' ridicolo? Ci accorgiamo, almeno per senso metrico ed estetico, che si deve pronunciare «stringiamci a coorte» e non «stringiamoci a coorte» e che, trattandosi di un inno ("Il canto degli Italiani" è il suo titolo) e non di una marcetta, viene suonato troppo veloce dalle orchestre e dalle fanfare italiane e straniere?

Ancora un esempio: perché gli episodi di lampante nazionalismo e di chiaro sentimento anti italiano vengono tranquillamente perdonati dall'opinione pubblica, mentre i loro corrispettivi sono senz'altro bollati di razzismo? Per chiarire il pensiero: qualcuno di noi si è sdegnato per lo sciopero indetto dai sindacati britannici contro i lavoratori italiani in Gran Bretagna? Ma quanti di noi, al contrario, si sdegnano se qualche politico, anche di infima importanza, afferma che il lavoro e le case vanno dati di preferenza agli italiani rispetto agli immigrati? E qualcuno ha trovato ridicolo (poiché ridicolo è) il fatto che, dopo la condanna di Amanda Knox, la questione sia stata portata da una senatrice americana addirittura al tavolo segretario di Stato Clinton? Naturalmente no, poiché noi non pretendiamo dagli stranieri quel rispetto che noi per primi non nutriamo per noi stessi. Noi infatti, per definizione, o non siamo, o siamo «brutti, sporchi e cattivi». Diciamocelo chiaramente: possiamo aspettarci grandi risultati nella politica internazionale se, dietro al governo e al ministero degli affari esteri, non vi è un popolo che voglia imporsi e far rispettare la propria volontà ed i propri interessi? Ed infine un ultimo esempio: ricordiamo con qualche palpito o coinvolgimento emotivo la frase di Fabrizio Quattrocchi «Ora vi faccio vedere come sa morire un italiano»? Naturalmente no. L'unica cosa che ne è seguita è stata l'accusa di essere un mercenario e un'inchiesta della procura di Bari che, dopo la sua tragica morte, ha indagato lui e i suoi compagni rapiti dagli estremisti islamici in Iraq, per il reato di «servizio alla dipendenza di potenze straniere», una norma del codice penale fascista che si applicava soprattutto in epoca di guerra. No amici: nessun eroe è tollerato nella nostra nazione; nessuna parola è tanto negletta tra noi quanto quella di «italianità». Chiedete ad un giovane, magari a vostro figlio se è diplomato, se conosce chi sia Cesare Battisti. Se è ben informato vi parlerà del detenuto nelle carceri brasiliane del quale è stata chiesta l'estradizione. Che un altro Cesare Battisti, socialista e irredentista trentino, abbia disertato dell'esercito austroungarico per venire a combattere per l'Italia, che sia stato catturato a Gorizia e impiccato per tradimento sugli spalti del Castello del Buonconsiglio nel luglio del 1916, non interessa a nessuno.

E per concludere, se non vi siete ancora spazientiti, ecco un piccolo «catechismo» per gli italiani. Potremmo essere orgogliosi di discendere dalla civiltà romana, che ha dato al mondo intero le fondamenta del suo diritto, la cui lingua è stata quella universalmente parlata tra la gente colta per quindici secoli ed è la madre dell'italiano, del francese, dello spagnolo, del portoghese, per non dire del rumeno e del ladino, che messi insieme, dall'America Meridionale, all'Europa all'Africa, all'Asia, sono le lingue più parlate in tutto il mondo? Potremmo sentirci orgogliosi che la Chiesa e la religione cristiana, nata in Palestina, è poi diventata, nelle sue strutture, romana a tutti gli effetti; e che, anche dopo la diaspora delle chiese riformate, è la religione più professata al mondo? Potremmo dirci orgogliosi della nostra poesia che, a partire dal romano Virgilio, per passare attraverso Dante, Petrarca ed Ariosto per citare solo i maggiori tra le decine di nomi possibili, è diventata scuola e maestra di tutte le letterature europee? Potremmo essere orgogliosi del nostro Rinascimento artistico e culturale che tutti, indistintamente, ammirano? Potremmo dirci orgogliosi del nostro Risorgimento nazionale che, dopo secoli di servitù del nostro popolo, ha saputo unificarlo, restituirgli la libertà e collocarlo finalmente, di diritto, tra le potenze europee che prima tanto lo dileggiavano? Potremmo dirci orgogliosi della nostra guerra di liberazione, dal cui lavacro di sangue è nata la Repubblica in cui viviamo e la nuova libertà del suo popolo? E se anche la nostra nazione fosse al presente la più miserabile, la più corrotta, la più incapace e inetta, come tutti i giorni ci sentiamo dire, non dovremmo almeno riconoscere la nostra passata grandezza storica a cui ispirarci in attesa di un nuovo riscatto? Adesso rispondete sinceramente a queste domande. Vi sentite anche minimamente orgogliosi della gloria passata in cui i nostri avi, italiani come noi, si distinsero? Naturalmente no. Per questo motivo la celebrazione del 150° anniversario dell'Unificazione è perfettamente inutile. Una festa o ricorrenza nazionale, per definizione, è una festa del popolo e di popolo. Scusate, e guardiamoci metaforicamente negli occhi: ma che cosa ha da festeggiare, nel 2011, il popolo italiano dimentico di tutto e di se stesso?

Massimo d'Azeglio osservava all'indomani dell'Unità: «Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani». Bene, è stato un completo fallimento. Gli Italiani non sono mai stati fatti, e noi oggi ne siamo la prova lampante.

Goffredo Mameli scriveva: Per secoli Siam stati Calpesti e derisi Perché non siam popolo Perché siam divisi. Povero illuso: a qusi due secoli di distanza non siamo ancora un popolo e, in quanto alla derisione, siamo i primi a deriderci.

Qual succo, dunque si deve trarre da tutto ciò? Qual è il senso di questo mio discorso così stralunato, per qualcuno magari pure un poco fascistoide, distante anni luce dai problemi ben più pratici e scottanti che ci riempiono i cuori, la mente e la bocca, e perciò noioso e totalmente privo di interesse? Proprio nessuno. Si tratta solo di una serie un po' confusa di constatazioni e dati di fatto che sono sotto gli occhi di chiunque. Qualcuno vi leggerà un sotterraneo spirito polemico, sorpassato o 'pelosamente' ideologico, qualificabile con il solito «Dio Patria e Famiglia»? Chi lo facesse sarebbe nell'errore. Se l'aspetto dell'assenza di un'identità nazionale tra gli italiani è un fenomeno storico oggettivo, come tale va preso senza sentimentalismi o secondi fini da parte di uno che, come me, ha insegnato storia nei licei classici per trentacinque anni. Al massimo, se qualcuno avrà avuto il coraggio di leggermi sino alla fine, potrà servire ad una certa chiarificazione su un aspetto (non un problema) di cui noi stessi siamo del tutto ignoranti e che nessuno, tra i tanti sapienti italici «in tutt'altre faccende affaccendati», si pone.

E adesso, cari amici, dimentichiamoci di tutto quanto ho scritto e torniamo felici ad essere, come scrisse Manzoni, quel volgo disperso che nome non ha. Una parte che, tra l'altro, ci si adatta molto bene e che tutti quanti interpretiamo magnificamente. In ogni caso c'è un'ottima notizia per il 2011, che vi riservo per ultima ed a noi italiani interessa molto più dell'anniversario della nostra Unificazione nazionale. Il 17 marzo sarà un giovedì e, se daranno festivo anche il venerdì, avremo un lungo ponte fino a domenica. Speriamo solo che sia bel tempo, poiché questo è quel che conta.

articolo pubblicato il: 16/04/2010

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