Riprendendo il filo del discorso che avevamo iniziato sul
150° anniversario dell'Unificazione che, come ogni ricorrenza
nazionale, richiederebbe un'autentica festa e una massiccia
partecipazione emotiva popolare, quale cultura nazionale esce
dalle nostre scuole? Chiedete ad un cittadino di media cultura
(e per media cultura intendo quelli che vanno dalla licenza
media alla licenza di secondaria superiore), se conosce qualcosa
dei Savoia. Di cosa vi parlerà? Di Emanuele Filiberto o, i più
competenti, di quel "traditore" di Vittorio Emanuele III e delle
leggi razziste da lui firmate. Che poi il medesimo personaggio
fosse lo stesso re che ha vinto la prima guerra mondiale, e che
sia esistito anche un Vittorio Emanuele II che è passato alla
storia come padre della patria, beh, questo è ininfluente e poco
importante.
Che cosa rimane del Risorgimento nella cultura scolastica
normale? L'affarismo e gli inganni del Cavour, l'inettitudine e
la stupidità di Vittorio Emanuele II, il fatto di Bronte, il
brigantaggio meridionale, la reazionaria Chiesa di Roma, le
proditorie e dinastiche guerre d'Indipendenza, l'ingiustizia
dell'unificazione che fu in realtà una conquista ed una
sottomisione al Piemonte, le vittorie ottenute non per merito
italiano, ma solo per l'alleanza francese e prussiana. Questa è
l'immagine trasmessa, dalla scuola, e tanto più dall'università,
del nostro Risorgimento: solo ombre, soltanto intrighi, solo
poveri martiri ignoranti mandati a morire per l'imperialismo e
l'autoritarismo dei Savoia. Ce n'è da essere orgogliosi? C'è
allora qualcosa da festeggiare nell'anniversario
dell'Unificazione? Naturalmente no: c'è al contrario da
vergognarsene e da battersi il petto recitando il mea culpa. E
infatti, quale studente si sente italiano, se non prima e dopo
le partite internazionali di calcio o le olimpiadi?
Ma in fin dei conti, guardiamo anche la nostra
generazione, che immagino sia dai quaranta anni in su: Quante
volte avete pronunciato la parola «patria» nella vostra vita?
Una, due volte? Non vi sentite intimamente a disagio a udirla in
qualche discorso ufficiale? E le domande a questo punto sono:
accade così anche all'estero? E ancora, siamo altrettanto
smaliziati, scettici e ironici nei confronti dei risorgimenti e
delle battaglie per la libertà e le unificazioni delle nazioni
straniere, siano quella vietnamita, afghana, angolana o
sudafricana? Ed ancora una riflessione: la generale iconoclastia
anti risorgimentale si è volta ormai anche verso l'ultimo,
splendido esempio del nostro Risorgimento, la resistenza e la
guerra di liberazione. Vi siete mai chiesti perché i giovani
della sinistra italiana sfoggiano magliette con l'effigie di Che
Guevara? Casa c'entra «Cuba libre» con le lotte dei nostri
partigiani e antifascisti per la libertà d'Italia?
Perché
non vediamo in giro magliette con l'immagine di Matteotti,
Gramsci o di una medaglia d'oro della resistenza come Pertini,
che ricordi qualche cosa di più vicino all'Italia libera dalla
dittatura e dall'occupazione? Soltanto perché il Che era più
belloccio dei nostri martiri della Resistenza e un
rivoluzionario un po' più romantico di quelli nostrani? Non sarà
forse perché l'unico loro difetto sia quello di essere italiani
e l'Italia non deve avere eroi? «Beati quei popoli che non hanno
bisogno di eroi», diceva Bertolt Brecht. Ebbene noi italiani
siamo beati, anzi, il popolo più beato del mondo: non abbiamo
nesun eroe nazionale e, se ce ne serve proprio qualcuno, lo
andiamo a prendere in prestito dagli stranieri.
Certamente, ha contribuito alla demolizione di quel che
resta di una cultura nazionale, la riforma dei programmi di
storia al biennio delle superiori, che ha fortemente ridotto lo
studio della storia romana inserendo nei programmi ministeriali,
nello stesso anno prima dedicato solo alla storia romana, anche
quella medievale fino all'Impero carolingio, sicché poi gli
studenti dei licei che devono tradurre dal latino non sanno
affatto contestualizzare il brano e cadono nei più incredibili
strafalcioni. Siamo al corrente, noi della nostra generazione di
adulti, che la storia del Risorgimento all'ultimo anno delle
superiori è la più negletta del programma e viene curata dai
docenti molto meno della rivoluzione francese o russa?
Noi per primi, conosciamo almeno una strofa dell'inno di Mameli?
Non lo consideriamo retorico, demodé, patriottardo, estraneo,
persino un po' ridicolo? Ci accorgiamo, almeno per senso metrico
ed estetico, che si deve pronunciare «stringiamci a coorte» e
non «stringiamoci a coorte» e che, trattandosi di un inno ("Il
canto degli Italiani" è il suo titolo) e non di una marcetta,
viene suonato troppo veloce dalle orchestre e dalle fanfare
italiane e straniere?
Ancora un esempio: perché gli episodi di lampante
nazionalismo e di chiaro sentimento anti italiano vengono
tranquillamente perdonati dall'opinione pubblica, mentre i loro
corrispettivi sono senz'altro bollati di razzismo? Per chiarire
il pensiero: qualcuno di noi si è sdegnato per lo sciopero
indetto dai sindacati britannici contro i lavoratori italiani in
Gran Bretagna? Ma quanti di noi, al contrario, si sdegnano se
qualche politico, anche di infima importanza, afferma che il
lavoro e le case vanno dati di preferenza agli italiani rispetto
agli immigrati? E qualcuno ha trovato ridicolo (poiché ridicolo
è) il fatto che, dopo la condanna di Amanda Knox, la questione
sia stata portata da una senatrice americana addirittura al
tavolo segretario di Stato Clinton? Naturalmente no, poiché noi
non pretendiamo dagli stranieri quel rispetto che noi per primi
non nutriamo per noi stessi. Noi infatti, per definizione, o non
siamo, o siamo «brutti, sporchi e cattivi». Diciamocelo
chiaramente: possiamo aspettarci grandi risultati nella politica
internazionale se, dietro al governo e al ministero degli affari
esteri, non vi è un popolo che voglia imporsi e far rispettare
la propria volontà ed i propri interessi?
Ed infine un ultimo esempio: ricordiamo con qualche palpito o
coinvolgimento emotivo la frase di Fabrizio Quattrocchi «Ora vi
faccio vedere come sa morire un italiano»? Naturalmente no.
L'unica cosa che ne è seguita è stata l'accusa di essere un
mercenario e un'inchiesta della procura di Bari che, dopo la sua
tragica morte, ha indagato lui e i suoi compagni rapiti dagli
estremisti islamici in Iraq, per il reato di «servizio alla
dipendenza di potenze straniere», una norma del codice penale
fascista che si applicava soprattutto in epoca di guerra. No
amici: nessun eroe è tollerato nella nostra nazione; nessuna
parola è tanto negletta tra noi quanto quella di «italianità».
Chiedete ad un giovane, magari a vostro figlio se è diplomato,
se conosce chi sia Cesare Battisti. Se è ben informato vi
parlerà del detenuto nelle carceri brasiliane del quale è stata
chiesta l'estradizione. Che un altro Cesare Battisti, socialista
e irredentista trentino, abbia disertato dell'esercito
austroungarico per venire a combattere per l'Italia, che sia
stato catturato a Gorizia e impiccato per tradimento sugli
spalti del Castello del Buonconsiglio nel luglio del 1916, non
interessa a nessuno.
E per concludere, se non vi siete ancora spazientiti,
ecco un piccolo «catechismo» per gli italiani.
Potremmo essere orgogliosi di discendere dalla civiltà romana,
che ha dato al mondo intero le fondamenta del suo diritto, la
cui lingua è stata quella universalmente parlata tra la gente
colta per quindici secoli ed è la madre dell'italiano, del
francese, dello spagnolo, del portoghese, per non dire del
rumeno e del ladino, che messi insieme, dall'America
Meridionale, all'Europa all'Africa, all'Asia, sono le lingue più
parlate in tutto il mondo?
Potremmo sentirci orgogliosi che la Chiesa e la religione
cristiana, nata in Palestina, è poi diventata, nelle sue
strutture, romana a tutti gli effetti; e che, anche dopo la
diaspora delle chiese riformate, è la religione più professata
al mondo?
Potremmo dirci orgogliosi della nostra poesia che, a partire dal
romano Virgilio, per passare attraverso Dante, Petrarca ed
Ariosto per citare solo i maggiori tra le decine di nomi
possibili, è diventata scuola e maestra di tutte le letterature
europee?
Potremmo essere orgogliosi del nostro Rinascimento artistico e
culturale che tutti, indistintamente, ammirano?
Potremmo dirci orgogliosi del nostro Risorgimento nazionale che,
dopo secoli di servitù del nostro popolo, ha saputo unificarlo,
restituirgli la libertà e collocarlo finalmente, di diritto, tra
le potenze europee che prima tanto lo dileggiavano?
Potremmo dirci orgogliosi della nostra guerra di liberazione,
dal cui lavacro di sangue è nata la Repubblica in cui viviamo e
la nuova libertà del suo popolo?
E se anche la nostra nazione fosse al presente la più
miserabile, la più corrotta, la più incapace e inetta, come
tutti i giorni ci sentiamo dire, non dovremmo almeno riconoscere
la nostra passata grandezza storica a cui ispirarci in attesa di
un nuovo riscatto?
Adesso rispondete sinceramente a queste domande. Vi sentite
anche minimamente orgogliosi della gloria passata in cui i
nostri avi, italiani come noi, si distinsero? Naturalmente no.
Per questo motivo la celebrazione del 150° anniversario
dell'Unificazione è perfettamente inutile. Una festa o
ricorrenza nazionale, per definizione, è una festa del popolo e
di popolo. Scusate, e guardiamoci metaforicamente negli occhi:
ma che cosa ha da festeggiare, nel 2011, il popolo italiano
dimentico di tutto e di se stesso?
Massimo d'Azeglio osservava all'indomani dell'Unità:
«Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani». Bene,
è stato un completo fallimento. Gli Italiani non sono mai stati
fatti, e noi oggi ne siamo la prova lampante.
Goffredo Mameli scriveva:
Per secoli
Siam stati
Calpesti e derisi
Perché non siam popolo
Perché siam divisi.
Povero illuso: a qusi due secoli di distanza non siamo ancora un
popolo e, in quanto alla derisione, siamo i primi a deriderci.
Qual succo, dunque si deve trarre da tutto ciò? Qual è il
senso di questo mio discorso così stralunato, per qualcuno
magari pure un poco fascistoide, distante anni luce dai problemi
ben più pratici e scottanti che ci riempiono i cuori, la mente e
la bocca, e perciò noioso e totalmente privo di interesse?
Proprio nessuno. Si tratta solo di una serie un po' confusa di
constatazioni e dati di fatto che sono sotto gli occhi di
chiunque. Qualcuno vi leggerà un sotterraneo spirito polemico,
sorpassato o 'pelosamente' ideologico, qualificabile con il
solito «Dio Patria e Famiglia»? Chi lo facesse sarebbe
nell'errore. Se l'aspetto dell'assenza di un'identità nazionale
tra gli italiani è un fenomeno storico oggettivo, come tale va
preso senza sentimentalismi o secondi fini da parte di uno che,
come me, ha insegnato storia nei licei classici per trentacinque
anni. Al massimo, se qualcuno avrà avuto il coraggio di leggermi
sino alla fine, potrà servire ad una certa chiarificazione su un
aspetto (non un problema) di cui noi stessi siamo del tutto
ignoranti e che nessuno, tra i tanti sapienti italici «in
tutt'altre faccende affaccendati», si pone.
E adesso, cari amici, dimentichiamoci di tutto quanto ho
scritto e torniamo felici ad essere, come scrisse Manzoni, quel
volgo disperso che nome non ha. Una parte che, tra l'altro, ci
si adatta molto bene e che tutti quanti interpretiamo
magnificamente.
In ogni caso c'è un'ottima notizia per il 2011, che vi riservo
per ultima ed a noi italiani interessa molto più
dell'anniversario della nostra Unificazione nazionale. Il 17
marzo sarà un giovedì e, se daranno festivo anche il venerdì,
avremo un lungo ponte fino a domenica. Speriamo solo che sia bel
tempo, poiché questo è quel che conta.
articolo pubblicato il: 16/04/2010