Molto spesso accade che scrittori, un tempo acclamati come sensazionali
innovazioni e sorprese,
cadano, dopo un periodo di acmè degno di nota, nel più profondo dei
dimenticatoi.
Succede non di rado di recarsi in libreria per acquistare un romanzo e di
scoprire, con non poco
disappunto, che il libro in questione "è fuori catalogo" e non più
ristampato perchè non più in auge.
Sarebbero innumerevoli gli esempi da portare ma questa volta la scrittrice
in questione ha rappresentato
un'epoca e, forse senza eccessive enfatizzazioni, una delle fautrici
dell'emancipazione femminile:
Annie Vivanti. Ai più questo nome, forse, non dice nulla, o al massimo
rievoca quello di Giosuè Carducci,
che per lei fu mentore, amico, confidente ed amante.
Di "quella singolare Vivanti", come una volta la definì Renato Serra, non fu
concesso di ricordarne
il nome dalla censura fascista, e viene ingiustamente annoverata tra le
scrittrici rosa, sebbene
dotata di un estro e di un talento ben lontani da quel genere, peraltro
assolutamente epocale e di massa.
Nata a Londra nel 1868 da padre italiano e da madre tedesca, Annie crebbe
dall'incrocio di razze discordi, e
già ad otto anni componeva versi nell'una e nell'altra lingua. Il cinque
dicembre del 1889, a soli
ventun anni, mentre si trovava in villeggiatura a Bologna, mandò una lettera
a Carducci col motto "Audaces
fortuna iuvat" e alcuni versi da lei composti, sperando di poter incontrare
il poeta. Egli trovò
ben presto una scusa per sottrarsi all'incontro. Ma Annie non demorse,
riscrivendo al Carducci
un altro biglietto in cui si paragonava ad Esaù che aveva aspettato ben
quattordici anni per sposare
la figlia del vecchio Giacobbe. Il poeta rifiutò nuovamente l'invito ad
incontrarsi, ma stavolta fu mosso dalla
curiosità e dalla crescente ammirazione per la giovane poetessa.
Cominciò così una fittissima corrispondenza tra i due, in cui il maestro
correggeva e forniva
spunti di riflessione all'allieva, che ebbra di ammirazione e voglia di
crescere seguiva pedissequamente.
Alimentarono la curiosità dell'Italia intera, che si chiedeva se si amassero
o meno. Sicuramente sì, ma ognuno dei due seppe mantenersi all'altezza del
proprio ruolo,
con estrema discrezione e signorilità. Non diedero insomma adito a facili
pettegolezzi nè a scherni soprattutto
riguardo alla differenza di età. Nel 1892 la Vivanti sposò John Chartres,
con cui si trasferì in America; nel
1893 nacque Vivien, futura violinista di successo. La bambina distolse la
scrittrice dalla sua professione e passione,
e lentamente la corrispondenza col Carducci si dirado' ed affievoli'.
Il poeta sarebbe morto di lì a non molto.
Nel 1910, dopo circa vent'anni di silenzio letterario, la Vivanti riapparve
come romanziera coi "Divoratori": il Borgese
la definì "scervellata fantasmagoria"; lo stesso poi la recensì. Il tema
portante fu il proprio il
dissidio di madre ed artista, apparentemente inconciliabili. Questo fu uno
dei suoi primi romanzi di successo.
Nel 1921 pubblicò "Naja tripudians", che affronta il tema della corruzione
minorile, dell'infanzia rubata e della droga.
Pietro Pancrazi scrisse che "Naja tripudians può anche dirsi (e non soltanto
per l'infausta cocaina) un romanzo stupefatto;
ma l'infanzia delle due bambine e la leggenda di Myosotis sono cose molto
gentili."
Le due giovani protagoniste del romanzo, Myosotis e Leslie, crebbero in
provincia, fra dolci e sereni affetti familiari. Si accostarono
con innocenza al dorato mondo dell'aristocrazia e ne vennero risucchiate e
contaminate, tra vizi e persone ammalate di dolore e
di piacere, in cui erano acquattate le belve della bramosia, della smania,
della passione e della disperazione. Così un altro
protagonista del torbido romanzo definì l'alta aristocrazia del tempo.
Lo stesso Pancrazi aggiunse poi che "l'arte della Vivanti ha un'allegrezza
ed una levità d'istinto, e un rapido sorriso,
e quasi scherzo nel dire, che nessuno scrittore o scrittrice allora ebbe...
si comprende bene come lo riconoscessero
il Carducci, il Croce, il Panzini, letterati di tradizione; i quali, sapendo
quanto poi quel dono è raro, lo salutarono
in lei anche con un certo stupore".
Alla morte del marito, la Vivanti si trasferì nuovamente in Italia, a
Torino. Cominciò così a scrivere una serie
di romanzi e racconti, incentrati su problematiche sociali e morali, di
passione e di cronaca.
Il pubblico femminile fu indubbiamente uno dei più fervidi estimatori della
scrittrice. Durante la guerra, però,
poichè suddita inglese ed ebrea, la Vivanti fu costretta a trasferirsi,
esule, ad Arezzo. Nel '41 le giunse notizia
che a Londra erano morti, vittime di un bombardamento, la figlia Vivien ed
il marito di lei, Richard Young.
L'anno successivo anche lei morì a Torino, il 20 febbraio. Ai tanti amici
giornalisti e scrittori che aveva, memori
del suo estro e del suo talento, non fu concesso farne pubblico ricordo.
Tutti e tutto sparito.