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ritrattino
Annie Vivanti
di Vittoria Martinelli

Molto spesso accade che scrittori, un tempo acclamati come sensazionali innovazioni e sorprese, cadano, dopo un periodo di acmè degno di nota, nel più profondo dei dimenticatoi.

Succede non di rado di recarsi in libreria per acquistare un romanzo e di scoprire, con non poco disappunto, che il libro in questione "è fuori catalogo" e non più ristampato perchè non più in auge.

Sarebbero innumerevoli gli esempi da portare ma questa volta la scrittrice in questione ha rappresentato un'epoca e, forse senza eccessive enfatizzazioni, una delle fautrici dell'emancipazione femminile: Annie Vivanti. Ai più questo nome, forse, non dice nulla, o al massimo rievoca quello di Giosuè Carducci, che per lei fu mentore, amico, confidente ed amante.

Di "quella singolare Vivanti", come una volta la definì Renato Serra, non fu concesso di ricordarne il nome dalla censura fascista, e viene ingiustamente annoverata tra le scrittrici rosa, sebbene dotata di un estro e di un talento ben lontani da quel genere, peraltro assolutamente epocale e di massa.

Nata a Londra nel 1868 da padre italiano e da madre tedesca, Annie crebbe dall'incrocio di razze discordi, e già ad otto anni componeva versi nell'una e nell'altra lingua. Il cinque dicembre del 1889, a soli ventun anni, mentre si trovava in villeggiatura a Bologna, mandò una lettera a Carducci col motto "Audaces fortuna iuvat" e alcuni versi da lei composti, sperando di poter incontrare il poeta. Egli trovò ben presto una scusa per sottrarsi all'incontro. Ma Annie non demorse, riscrivendo al Carducci un altro biglietto in cui si paragonava ad Esaù che aveva aspettato ben quattordici anni per sposare la figlia del vecchio Giacobbe. Il poeta rifiutò nuovamente l'invito ad incontrarsi, ma stavolta fu mosso dalla curiosità e dalla crescente ammirazione per la giovane poetessa.

Cominciò così una fittissima corrispondenza tra i due, in cui il maestro correggeva e forniva spunti di riflessione all'allieva, che ebbra di ammirazione e voglia di crescere seguiva pedissequamente.

Alimentarono la curiosità dell'Italia intera, che si chiedeva se si amassero o meno. Sicuramente sì, ma ognuno dei due seppe mantenersi all'altezza del proprio ruolo, con estrema discrezione e signorilità. Non diedero insomma adito a facili pettegolezzi nè a scherni soprattutto riguardo alla differenza di età. Nel 1892 la Vivanti sposò John Chartres, con cui si trasferì in America; nel 1893 nacque Vivien, futura violinista di successo. La bambina distolse la scrittrice dalla sua professione e passione, e lentamente la corrispondenza col Carducci si dirado' ed affievoli'.

Il poeta sarebbe morto di lì a non molto.

Nel 1910, dopo circa vent'anni di silenzio letterario, la Vivanti riapparve come romanziera coi "Divoratori": il Borgese la definì "scervellata fantasmagoria"; lo stesso poi la recensì. Il tema portante fu il proprio il dissidio di madre ed artista, apparentemente inconciliabili. Questo fu uno dei suoi primi romanzi di successo.

Nel 1921 pubblicò "Naja tripudians", che affronta il tema della corruzione minorile, dell'infanzia rubata e della droga.

Pietro Pancrazi scrisse che "Naja tripudians può anche dirsi (e non soltanto per l'infausta cocaina) un romanzo stupefatto; ma l'infanzia delle due bambine e la leggenda di Myosotis sono cose molto gentili."

Le due giovani protagoniste del romanzo, Myosotis e Leslie, crebbero in provincia, fra dolci e sereni affetti familiari. Si accostarono con innocenza al dorato mondo dell'aristocrazia e ne vennero risucchiate e contaminate, tra vizi e persone ammalate di dolore e di piacere, in cui erano acquattate le belve della bramosia, della smania, della passione e della disperazione. Così un altro protagonista del torbido romanzo definì l'alta aristocrazia del tempo.

Lo stesso Pancrazi aggiunse poi che "l'arte della Vivanti ha un'allegrezza ed una levità d'istinto, e un rapido sorriso, e quasi scherzo nel dire, che nessuno scrittore o scrittrice allora ebbe... si comprende bene come lo riconoscessero il Carducci, il Croce, il Panzini, letterati di tradizione; i quali, sapendo quanto poi quel dono è raro, lo salutarono in lei anche con un certo stupore".

Alla morte del marito, la Vivanti si trasferì nuovamente in Italia, a Torino. Cominciò così a scrivere una serie di romanzi e racconti, incentrati su problematiche sociali e morali, di passione e di cronaca.

Il pubblico femminile fu indubbiamente uno dei più fervidi estimatori della scrittrice. Durante la guerra, però, poichè suddita inglese ed ebrea, la Vivanti fu costretta a trasferirsi, esule, ad Arezzo. Nel '41 le giunse notizia che a Londra erano morti, vittime di un bombardamento, la figlia Vivien ed il marito di lei, Richard Young.

L'anno successivo anche lei morì a Torino, il 20 febbraio. Ai tanti amici giornalisti e scrittori che aveva, memori del suo estro e del suo talento, non fu concesso farne pubblico ricordo.

Tutti e tutto sparito.

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