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cultura
T. S. Eliot
di Giuseppe La Rosa

Nato a Sant Louis negli U.S.A., studiò ad Harvard, poi alla Sorbona e infine ad Oxford. Stabilitosi a Londra, prima di diventare famoso, fece di tutto per campare : dall’insegnamento di lingue, storia, nuoto, pallacanestro all’impiegato di banca. Nel 1927 si convertì al cristianesimo. Nel 1948 vinse il premio Nobel.

Il pensiero di Eliot muove, come la sua vita, da una disperata visione del mondo : il mondo è roso implacabilmente dal morso del tempo. Nulla resiste. Tutto muore e rinasce in una vicenda alterna e monotona. Vita e morte si intrecciano e si confondono nell’opera del tempo. Quel tempo che forse non c’è, quello scorrere degli anni che forse è per tutti un’illusione.

L’amore, il più dolce frutto della vita, viene e va. E anche l’amore, quando lo si assapora, tronca ogni cosa sotto il morso d’un sorriso. L’amore, cioè, dura quanto dura un’illusione, un attimo.

L’uomo, inaridito e desolato, scaraventato nella danza macabra del tempo. Ombre e luci, ora meste e dolci, ora violente e terribili.

Enigma è l’esistenza. Il tempo è illusione. Lo spazio è illusione.

La vita e la morte sono i due poli illusori di una stessa realtà. Giocano all’altalena tra essi, e si manifestano appena appena nel sensibile che ti è attorno.

Ma Eliot non si sofferma a tali constatazioni. Anche se la terra e l’uomo sono desolati, tuttavia sono battuti da spiragli di sole. Nel temporale scorge l’eterno.

In un primo tempo, dalle filosofie asiatiche prende a prestito la concezione del mondo : trascorrere monotono del tempo, dilatarsi vuoto dello spazio, ma comunque rinascita, reincarnazione; esistenza lacerata dal tempo e dispersa nello spazio, ma purificata del male con il fuoco; disarmonie del mondo ma ritorno degli elementi nell’oceano impersonale di una astratta divinità.

Gradatamente Eliot avverte l’insufficienza di tali sbocchi, sente l’esigenza di cogliere l’immortalità personale per ogni singolo uomo, percepisce il desiderio ardente d’evadere da una condizione di vita in cui ognuno è, come un fantoccio, farcito di paglia. Coglie che nonostante il cuore dell’uomo sia a volte arido, tuttavia vi può sbocciare pace e luce interiore, come se l’anima timidamente captasse la nostalgia del cielo.

E così, piano piano, la visione del mondo cambia colore. E l’anima ora può sperare e cantare senza paura. E il destino di ogni uomo può delinearsi. Anzi, diventa inevitabile e indispensabile prendere coscienza della propria vocazione, slegandosi e distinguendosi dalla e tra la folla infinita e anonima che vive alla giornata.

Bisogna che la vita sia un ponte che colleghi il temporale all’intramontabile, che operi il felice incontro tra ciò che passa e ciò che resta per sempre, di modo che la fine della stanca fuga del tempo si concluda e si innesti nel principio della quiete beata dell’eternità.

La vita è missione, anche fino al sangue. Quando parrà che sia terminata, allora comincerà la grande Vita : “Nella mia fine è il mio principio”.

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